Pubblico una lettera che Don Luigi Ciotti ha inviato a "L'Unità" qualche giorno fa.
"Quando, alcuni mesi fa, il Comune di una città del nord ha deciso di togliere alcune panchine per impedire la sosta di persone che vivevano in strada, mi sono sentito toccato nel profondo.
La storia del Gruppo Abele nasce infatti sulla strada, ma parte proprio da una panchina. Era un medico che non riusciva a perdonarsi di avere sbagliato un intervento, con conseguenze letali per il paziente, la persona che incontrai un giorno 44 anni fa. Un uomo tormentato, che aveva deciso di eleggere a suo domicilio una panchina di Torino, e che quando accettò di farsi avvicinare – aveva un carattere scontroso, difficile – mi fece il regalo di raccontarmi la sua storia per dirmi alla fine: «non preoccuparti per me, so cavarmela, occupati piuttosto di loro... ». E m’indicò dei ragazzi che sostavano di fronte a un bar e che lui sapeva fare uso di droghe, quelle anfetamine che erano gli stupefacenti più diffusi prima dell’ondata dell’eroina negli anni settanta.
Da allora il Gruppo Abele non ha mai smesso di sentirsi provocato dalla strada e da tutto ciò che nella strada vive. Strada come luogo di domande e di bisogni, di fatiche e di ferite, ma anche di possibilità e di cambiamenti. Spazio di una diversità umana, sempre in cammino, che è gemella della varietà della vita. Luogo di persone prima che di problemi, di una complessità da affrontare restando semplici, essenziali, veri.
Ora su questo popolo della strada, che non ha altro posto all’infuori della strada per vivere, incombe una minaccia che si chiama sicurezza. La sicurezza, non mi stancherò di dirlo, è un diritto sacrosanto, ma è un diritto di tutti. Sicurezza è vivere la libertà insieme agli altri, non a scapito degli altri. E’ condivisione di regole in un patto di cittadinanza.
Non è questa, però, la sicurezza di cui tanto si parla. Una sicurezza che emargina, discrimina, ghettizza, crea le condizioni per rigurgiti razzisti, come purtroppo la cronaca recente testimonia. Che alimenta paure e costruisce capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause dell’insicurezza, l’iniquità di un sistema che demolisce i diritti rendendoci tutti più poveri, più diffidenti, più insicuri.
Ecco allora l’appellarsi alla sicurezza e al “decoro” – sua ipocrita declinazione estetica – per nascondere ciò che sta dietro al diffondersi della paura: un enorme deficit di giustizia sociale. Ecco il repertorio di divieti e sanzioni che non colpiscono ormai più il reato ma la condizione umana, accanendosi sulle persone più fragili, su chi arriva nelle nostre città spinto dalla fame, dalle guerre, e che vede spesso aggiungere al suo carico di sofferenza il peso insopportabile dello sfruttamento e della schiavitù.
Ma non è così che si costruisce la sicurezza. Sicure non sono le città attraversate da muri materiali e culturali. Sicure sono le città che accolgono, che tendono la mano, che si fanno in quattro per ospitare, che fanno sentire lo straniero e il “diverso” loro concittadino, parte attiva e responsabile della comunità. Che sono disseminate di servizi, punti di riferimento, e che certo non progettano di eliminare le panchine.
Pensiamo a come sarebbe povera una città senza panchine! Perché è luogo di vita, una panchina. Lo è per i tanti immigrati che la domenica si riuniscono nei parchi pubblici e là socializzano, condividono un pasto, organizzano giochi per i loro bambini. Lo è per gli anziani che, sedendo tra il verde, tutelano la memoria della comunità, raccontano e si raccontano riassaporando il senso e il valore dei loro vissuti. Lo è per i ragazzi: pensiamo agli amori di cui le panchine custodiscono gelosamente il segreto. Ai tantissimi giovani che su quelle assi di legno hanno scoperto l’emozione dell’amore, mosso i primi timidi passi di un’educazione sentimentale.
Ma ognuno di noi potrebbe ricordare una panchina sulla quale ha riposato, scambiato parole amichevoli, letto un libro. E ha riflettuto. Perché può essere anche luogo di scoperta, una panchina. Occasione per aprire lo sguardo a quello che a volte non possiamo o vogliamo vedere, dentro e fuori di noi, catturati come siamo da un sistema che sembra privilegiare solo relazioni convenzionali, pensieri superficiali, responsabilità limitate.
Su una panchina siamo stati raggiunti dai volti della povertà e dello sfruttamento, abbiamo constatato come i diritti universali siano ancora oggi troppo spesso carta e non carne, vita delle persone. Ma da una panchina abbiamo potuto anche guardare oltre la strada, riflettere sulle ferite della normalità, sulle solitudini che si annidano nei palazzi, sulle tante fragilità timorose di uscire allo scoperto.
Ecco allora che una panchina, presenza discreta ed essenziale, può diventare il luogo in cui l’io si riconosce come noi ritrova la propria responsabilità e senso di giustizia. E avverte lo stimolo d’impegnarsi in quei piccoli e grandi cambiamenti che maturano quando scopriamo nella relazione con gli altri l’essenza più profonda della vita umana".
Fonte: Il blog di Paolo Borrello
"Quando, alcuni mesi fa, il Comune di una città del nord ha deciso di togliere alcune panchine per impedire la sosta di persone che vivevano in strada, mi sono sentito toccato nel profondo.
La storia del Gruppo Abele nasce infatti sulla strada, ma parte proprio da una panchina. Era un medico che non riusciva a perdonarsi di avere sbagliato un intervento, con conseguenze letali per il paziente, la persona che incontrai un giorno 44 anni fa. Un uomo tormentato, che aveva deciso di eleggere a suo domicilio una panchina di Torino, e che quando accettò di farsi avvicinare – aveva un carattere scontroso, difficile – mi fece il regalo di raccontarmi la sua storia per dirmi alla fine: «non preoccuparti per me, so cavarmela, occupati piuttosto di loro... ». E m’indicò dei ragazzi che sostavano di fronte a un bar e che lui sapeva fare uso di droghe, quelle anfetamine che erano gli stupefacenti più diffusi prima dell’ondata dell’eroina negli anni settanta.
Da allora il Gruppo Abele non ha mai smesso di sentirsi provocato dalla strada e da tutto ciò che nella strada vive. Strada come luogo di domande e di bisogni, di fatiche e di ferite, ma anche di possibilità e di cambiamenti. Spazio di una diversità umana, sempre in cammino, che è gemella della varietà della vita. Luogo di persone prima che di problemi, di una complessità da affrontare restando semplici, essenziali, veri.
Ora su questo popolo della strada, che non ha altro posto all’infuori della strada per vivere, incombe una minaccia che si chiama sicurezza. La sicurezza, non mi stancherò di dirlo, è un diritto sacrosanto, ma è un diritto di tutti. Sicurezza è vivere la libertà insieme agli altri, non a scapito degli altri. E’ condivisione di regole in un patto di cittadinanza.
Non è questa, però, la sicurezza di cui tanto si parla. Una sicurezza che emargina, discrimina, ghettizza, crea le condizioni per rigurgiti razzisti, come purtroppo la cronaca recente testimonia. Che alimenta paure e costruisce capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause dell’insicurezza, l’iniquità di un sistema che demolisce i diritti rendendoci tutti più poveri, più diffidenti, più insicuri.
Ecco allora l’appellarsi alla sicurezza e al “decoro” – sua ipocrita declinazione estetica – per nascondere ciò che sta dietro al diffondersi della paura: un enorme deficit di giustizia sociale. Ecco il repertorio di divieti e sanzioni che non colpiscono ormai più il reato ma la condizione umana, accanendosi sulle persone più fragili, su chi arriva nelle nostre città spinto dalla fame, dalle guerre, e che vede spesso aggiungere al suo carico di sofferenza il peso insopportabile dello sfruttamento e della schiavitù.
Ma non è così che si costruisce la sicurezza. Sicure non sono le città attraversate da muri materiali e culturali. Sicure sono le città che accolgono, che tendono la mano, che si fanno in quattro per ospitare, che fanno sentire lo straniero e il “diverso” loro concittadino, parte attiva e responsabile della comunità. Che sono disseminate di servizi, punti di riferimento, e che certo non progettano di eliminare le panchine.
Pensiamo a come sarebbe povera una città senza panchine! Perché è luogo di vita, una panchina. Lo è per i tanti immigrati che la domenica si riuniscono nei parchi pubblici e là socializzano, condividono un pasto, organizzano giochi per i loro bambini. Lo è per gli anziani che, sedendo tra il verde, tutelano la memoria della comunità, raccontano e si raccontano riassaporando il senso e il valore dei loro vissuti. Lo è per i ragazzi: pensiamo agli amori di cui le panchine custodiscono gelosamente il segreto. Ai tantissimi giovani che su quelle assi di legno hanno scoperto l’emozione dell’amore, mosso i primi timidi passi di un’educazione sentimentale.
Ma ognuno di noi potrebbe ricordare una panchina sulla quale ha riposato, scambiato parole amichevoli, letto un libro. E ha riflettuto. Perché può essere anche luogo di scoperta, una panchina. Occasione per aprire lo sguardo a quello che a volte non possiamo o vogliamo vedere, dentro e fuori di noi, catturati come siamo da un sistema che sembra privilegiare solo relazioni convenzionali, pensieri superficiali, responsabilità limitate.
Su una panchina siamo stati raggiunti dai volti della povertà e dello sfruttamento, abbiamo constatato come i diritti universali siano ancora oggi troppo spesso carta e non carne, vita delle persone. Ma da una panchina abbiamo potuto anche guardare oltre la strada, riflettere sulle ferite della normalità, sulle solitudini che si annidano nei palazzi, sulle tante fragilità timorose di uscire allo scoperto.
Ecco allora che una panchina, presenza discreta ed essenziale, può diventare il luogo in cui l’io si riconosce come noi ritrova la propria responsabilità e senso di giustizia. E avverte lo stimolo d’impegnarsi in quei piccoli e grandi cambiamenti che maturano quando scopriamo nella relazione con gli altri l’essenza più profonda della vita umana".
Fonte: Il blog di Paolo Borrello