Qualche giorno fa mi è arrivata una mail in cui mi si chiedeva i contatti dei soggetti di un mio reportage per fotografarli per partecipare ad un concorso.
Questa mail mi ha fatto molto riflettere sul mio modo di vedere il reportage e la fotografia in generale. Per me scattare significa raccontare una storia, sviscerare un argomento, approfondire una tematica. Nella mia carriera non ho mai partecipato ad un concorso perché non credo che possa arricchirmi in qualche modo, infatti narrare una storia mi permette di conoscere quello che vado a fotografare, che è il mio fine ultimo. Questo non significa che mi tengo i miei lavori per me, ma cerco sempre il confronto con altri colleghi e appassionati, tutti i miei lavori vengono "messi alla prova" nel circolo fotografico di cui faccio parte, vengono visti privatamente da altri reporter, proprio per capire se il messaggio che voglio comunicare arriva forte e chiaro.
Guardando i vari lavori che mi vengono sottoposti noto che la tendenza di questi ultimi anni è proprio quella di scattare per impressionare l'osservatore. Molta meno attenzione viene riversata all'articolazione della storia, a come viene raccontata. Sembra che manchi la base del reportage: la conoscenza del soggetto e della sua storia. Sono le fondamenta di un buon lavoro fotografico e non devono mai mancare. Secondo me anche il tempo speso per cercare contatti, guardare altri lavori sullo stesso argomento, fare telefonate e parlare con i soggetti sono ore ben spese, rappresentano un importante investimento per la buona riuscita del reportage.
PS: alla fine non ho dato i contatti, non per cattiveria, ma per una questione di pricacy. I miei lavori sono sempre un po' delicati, trattano tematiche borderline e ritengo che una delle condizioni imprescindibili del mio lavoro sia proprio proteggere il mio soggetto; proteggere la loro privacy è alla fine uno dei pilastri che fonda il mio rapporto con le persone ritratte.