Sono passate solo poche ore dal bellissimo incontro che si è svolto nella magnifica sede del GF La Mole di Torino. L'accoglienza è stata magnifica, tutti i presenti, numerosissimi, si sono dimostrati molto interessati la mio lavoro. Un grazie particolare al direttivo del gruppo, in particolar modo al presidente Riccardo Rebora per la splendida accoglienza.
Ecco di seguito l'intervista:
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Visto che la platea della Mole presenta numerosi volti nuovi, è il
caso di ricordare brevemente il tuo background e come da una laurea
in psicologia del lavoro si giunga a essere titolare di un avviato
studio fotografico specializzato in eventi e fotografia di impresa.
Ho
iniziato a fotografare tardi, proprio durante gli ultimi anni
dell'università, la mia scelta di studiare psicologia è dovuta
proprio al mio amore per l'essere umano, proprio per questo non ci
sono molte mie fotografie senza la sua presenza, diretta o indiretta.
Inoltre mi sono specializzato in psicologia del lavoro e delle
organizzazioni, e caso vuole che il core business del mio studio
fotografico fossero proprio le aziende. Oggi mi occupo del sociale,
mestiere che mi ha permesso, da una parte di tornare alle origini,
infatti appena laureato mi sono occupato della formazione di soggetti
svantaggiati e del loro orientamento professionale, ma anche di
venire a contatto con un'umanità che mi sta aiutando a conoscermi
meglio.
Per
me la macchina fotografica è solo uno strumento di conoscenza, un
blocco di appunti, di schizzi per poter conoscere meglio la realtà
che sto vivendo. Il mio lavoro da psicologo, da fotografo e ora da
operatore del sociale mi ha permesso di conoscere l'animo umano, che
è il fine ultimo della mia ricerca personale.
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Fotografia non solo come mezzo di sostentamento, ma come un vero e
proprio talento che nei tuoi reportage emerge a chiare lettere. Hai
voglia di raccontarci i tuoi principali lavori?
Il
mio intento in fotografia è quello di raccontare le storie che mi
appassionano. Come ho già detto, il mio lavoro da psicologo prima,
quello di fotografo dopo e ora di operatore nel sociale, non sono
solo un modo di finanziare i miei lavori, i miei reportage, ma anche
un modo per poter incontrare realtà diverse che mi aiutano a
crescere e a conoscere situazioni nuove. Proprio la mia curiosità è
il motore che spinge nella continua ricerca che sto facendo da circa
20 anni. Inizialmente fotografavo come tutti, in vacanza, ma poi,
durante gli ultimi anni dell'università qualcosa è cambiato e ho
iniziato a fotografare in maniera più analitica e con più costanza.
Dopo qualche anno ho iniziato a capire che quello che maggiormente mi
interessava era raccontare delle storie che mi interessavano, che mi
incuriosivano e ho iniziato a esplorare il mondo del reportage.
Utilizzo la fotografia soprattutto per me stesso, non tanto per
portare agli altri un messaggio o per condividere quello che ho
fotografato, ma utilizzo la macchina fotografica per studiare delle
situazioni delle storie che voglio approfondire.
Amo
i lavori lungi, anche di alcuni anni, perché mi permette di studiare
meglio quello che documento, mi permette di conoscere in maniera più
approfondita le persone ritratte. Il primo grande lavoro che ho
intrapreso è stato quello su un gruppo di Rom, presentato alla Mole
ormai quasi una decina di anni fa. Il reportage racconta, durante un
arco temporale di 4 anni, la storia di alcuni rom che da nomadi sono
diventati stanziali, seguendo passo dopo passo questa loro
trasformazione sociale. Questo rappresenta per me un lavoro
importante perché mi ha fatto capire come la fotografia mi possa
aiutare a entrare in situazioni che difficilmente riuscirei a
conoscere, ma che mi interessano, come uomo e come psicologo.
Altri
lavori importanti sono per me quelli del filone del borderline, dove
sto esplorando e documentando la vita di tutti coloro che hanno
deciso volontariamente di vivere una vita secondo canoni che non sono
quelli socialmente riconosciuti da tutti, inizio a citare le Drag
queen, per passare alla cartomante, ma anche alla escort o alle suore
di clausura. Proprio quest'ultimo lavoro mi ha permesso di entrare in
contatto con una delle categorie meno accessibili per definizione. Da
questo progetto, che inizialmente era nato come un semplice lavoro di
documentazione per le generazioni future, prima che il convento
scompaia, è diventato una mostra e poi un libro fotografico.
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Alcuni lavori sono dei pezzi unici mentre, altri sono ricorrenti come
quello del premio Tenco. Ci racconti come è iniziato il progetto?
Questo
lavoro nasce dopo il mio ritorno a Imperia. Una mia carissima amica,
compagna di liceo, fa parte del Club Tenco dal 1998 e appena ha
saputo del mio arrivo, conoscendo i miei lavori in campo musicale, mi
ha chiesto di aiutare il loro ufficio stampa. Con loro mi sono
occupato, non solo della documentazione fotografica, ma anche della
gestione dei social network, in particolare di facebook e twitter
durante le varie rassegne.
Il
bello di questo lavoro è proprio il clima allegro e amicale che
regna in questa situazione. Anche tra i vari fotografi che anno dopo
anno ci incontriamo sotto il palco non c'è rivalità, ma anzi, è
nata una bell'amicizia. Abbiamo creato anche un gruppo su Facebook
per tenerci in contatto durante l'anno, quando siamo sparsi per mezza
Italia.
Altro
aspetto molto interessante è che non c'è solo la parte live da
documentare, ma anche le prove, che di solito sono libere e aperte
alla stampa, dove si possono scattare fotografie molto particolari e
intime dei musicisti, ma anche l'infermeria o la cena del dopotenco,
dove, in entrambi i casi, lo spirito goliardico della rassegna emerge
e fa si che possano scattare immagini molto particolari.
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Un lavoro invece in continuo divenire è quello di documentazione che
svolgi per Libera...che cosa ti fornisce continui stimoli
fotografici?
Ho
iniziato a collaborare con Libera nel 2005 in maniera molto casuale:
ho letto su Torino Sette di uno spettacolo di circo da strada a
Palazzo Nuovo e visto che all'epoca stavo documentando proprio gli
artisti da strada sono andato a fotografarli. Come sempre chiedo se
volevano i miei scatti e a chi potevo spedirli, invece di darmi una
mail, come spesso accadeva, mi hanno invitato ad andarli a trovare
per consegnare le fotografie. Da quel giorno ho iniziato a lavorare
con loro, prima con Libera Piemonte, poi anche con Libera nazionale
con la copertura dei grandi eventi come le manifestazioni del 21
marzo o Contromafie. Oggi il mio ruolo è ancora cambiato, perché
dopo il mio trasferimento a Imperia, dove la realtà
dell'associazione è più piccola di quella di Torino e del Piemonte,
mi sono stati affidati compiti più organizzativi e meno di
documentazione, anche se continuo a lavorare in questa direzione. Per
4 anni ho insegnato fotografia nei campi di mediattivismo, proprio in
questi mesi sto creando e organizzando l'archivio fotografico
dell'associazione, ruolo che mi onora e mi impegna moltissimo.
Mi
piace definirmi, in questo caso, un fotografo militante, perché
faccio vita attiva all'interno di Libera, non a caso in questa
settimana di ferie sono qua a Torino a fare documentazione di alcune
realtà di Libera Piemonte, a Imperia coinvolgo i ragazzi con cui
quotidianamente lavoro in attività di rispetto alla legalità. Credo
moltissimo in quello che Libera ha fatto in questi anni e che sta
continuando a fare e cerco di dare un piccolo contributo alla causa.
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Quello che ho sempre apprezzato della tua presenza al circolo è la
tua apertura del confronto, hai sempre scelto il circolo come primo
luogo di visione dei tuoi lavori alla ricerca di un confronto e di
una crescita comune. E anche quest'anno ci onori di un prima visione.
Ci racconti qualcosa in merito al lavoro che hai svolto presso il
campo di Ventimiglia?
Prima
ho detto che fotografo per me stesso, per conosce meglio la realtà
che mi circonda, forse in maniera un po' egoistica, ma non per questo
non ricerco un confronto, anzi lo ritengo di vitale importanza per la
crescita personale, del mio lavoro e del gruppo. Non penso che una
fotografia possa cambiare il mondo, ma credo che un'immagine possa
risvegliare la coscienza di chi la guarda, arricchire l'anima
dell'osservatore, far porre delle domande, far approfondire una
tematica. Se dopo questa serata qualcuno si interesserà a Libera o
farà una donazione alla cooperativa per cui lavoro, allora i miei
lavori saranno serviti, avrò aiutato qualcuno a conoscere una
piccola parte di realtà di cui ignorava l'esistenza.
Il
lavoro delle Gianchette nasce proprio grazie al mio attuale lavoro,
dove mi occupo di minori. A fine aprile ho partecipato a un corso sui
minori stranieri non accompagnati, tenuto proprio a Ventimiglia
dall'Unichef. In quel week end ho potuto conoscere diverse realtà
che, come noi, lavorano direttamente sul campo all'interno del nostro
territorio. Una di queste associazioni era la Caritas che gestiva il
campo delle Gianchette, quartiere periferico di Ventimiglia, che era
riservato solo ai minori non accompagnati e alle famiglie con figli
piccoli. Al termine dell'ultima giornata sono stato invitato a
visitare il campo e ne sono rimasto molto affascinato. Qualche
settimana dopo ho iniziato a stilare un progetto da presentare alla
Caritas per documentare la vita quotidiana e a giugno ho iniziato la
documentazione vera e propria, in un periodo molto particolare,
quello del Ramadan.
Ho
voluto documentare la vita quotidiana dei volontari, degli ospiti del
campo e di tutte le persone che ci gravitavano intorno. Inizialmente
ho avuto grandi difficoltà, dovuta sia alla mia innata timidezza,
sia alla barriera linguistica, infatti non tutti parlavano inglese.
Per fortuna ho avuto due ottime guide che mi hanno permesso di
entrare in relazione con le persone presenti nel campo e ho potuto
portare a termine il lavoro.
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Abbiamo visto dei lavori completi, precisi e incisivi...pensi di
essere cambiato nel corso degli anni?
Negli
ultimi anni è cambiato moltissimo la mia visione della tecnica
fotografica, prima ritenuta importante, ma mano a mano che passa il
tempo ritengo che sia sempre marginale all'idea e a quello che si
vuole comunicare: liberarmi dalle paranoie della tecnica mi ha
permesso di concentrarmi maggiormente sul messaggio. Questo non vuol
dire che la tecnica non sia importante, bisogna possederla, proprio
per non esserne schiavi. Da sempre paragono la fotografia a
un'attività sportiva. Come nello sport è importante la dedizione,
la disciplina, la costanza. Non penso che il talento sia
fondamentale, mentre la perseveranza sia di vitale importanza: in
fotografia il talento equivale ad avere 100 metri di vantaggio in una
maratona. Oggi abbiamo tutti gli strumenti per dedicarci con costanza
alla fotografia, in primis il cellulare, che abbiamo sempre dietro e
ci permette di essere “invisibili” agli occhi di chi stiamo
fotografando, in modo da ottenere maggiore spontaneità. Questo non
vuol dire che dobbiamo fotografare di nascosto, anzi, bisogna sempre
spiegare perché stiamo fotografando, qual'è il fine ultimo del
lavoro.
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Prima di lasciare la parola ai nostri soci, hai voglia di dare due
dritte pratiche su come prepararsi da un punto di vista fotografico
ad un reportage?
Il
primo consiglio che vi posso dare è quello di studiare bene quello
che andate a fotografare. Prima di iniziare a scattare dovete
conoscere tutto sull'argomento, dovete essere ben documentati. Io
faccio così: dopo aver scelto il mio soggetto leggo tutto quello che
riesco a trovare, mi presento ai soggetti, spiego loro cosa ho in
mente di fare, cosa voglio comunicare, li intervisto più volte per
avere il loro punto di vista e solo dopo aver avuto tutte queste
informazioni inizio a scattare. A volte passano alcuni anni tra
l'idea iniziale e l'inizio degli scatti, in fotografia, ma
soprattutto nel reportage non bisogna avere fretta, perché porta a
compiere scelte spesso errate, non a caso considero questa la parte
più importante di tutto il processo, la base, le fondamenta
dell'intero lavoro.
Vorrei
aggiungere che secondo me anche la parte relativa all'editing riveste
un ruolo fondamentale nell'economia del reportage. La scelta delle
fotografie, il loro taglio, la sequenza nel racconto sono nodi
importantissimi nella storia che vogliamo raccontare. Personalmente
ho notato come nell'arco del tempo è cambiato il mio modo di
raccontare una determinata storia, oggi, se dovessi rieditare un
lavoro di 10 anni fa lo farei in maniera completamente diverso
rispetto al passato, mi piace pensare al reportage come un qualcosa
di dinamico, non di statico, qualche che si evolve come ci evolviamo
noi come fotografi, che cresce insieme a noi.