Marta è una mia giovanissima allieva, ha frequentato quest'inverno il mio apericorso e subito si è distinta per talento e per bravura.
Qualche giorno fa mi contatta chiedendomi se potevo rispondere a qualche domanda per la sua tesi intitolata: "Quando uno scatto ruba l'anima".
Ho subito accettato con entusiasmo, non solo perché l'argomento è molto interessante e ricco di spunti di riflessione, ma anche perché mi fa sempre piacere aiutare i miei allievi.
Ecco l'intervista! ;)
1
-Iniziamo dalle presentazioni, raccontami chi è Marco Donatilello
Marco
è un fotografo, anzi no... è un narratore di storie. Questo perché
non amo essere vincolato da classificazioni standardizzate come
ritrattista, fotografo o reporter. La descrizione che mi vedo meglio
cucita addosso è proprio quella di narratore di storie. Amo
raccontare, con la mia macchina fotografica, con le mie immagini e
con il mio sguardo, storie che mi colpiscono. Cerco di farlo in punta
di piedi, senza influenzare la situazione che sto documentando,
sempre nel rispetto dei soggetti, della loro storia e del loro
vissuto.
2-Domanda
di rito, come è nata la passione per la fotografia?
Ho
iniziato a fotografare tardi rispetto alla media di molti miei
colleghi. Mi sono avvicinato alla fotografia all'ultimo anno di
università, quando sono venuto a contatto con una delle primissime
macchine fotografiche digitali. Da quel momento è stato un amore
senza fine! Le prime fotografie, i primi approcci su internet e sui
forum di fotografia per imparare e conoscere altri appassionati; fino
al 2007, anno in cui ho deciso di buttarmi nel mondo del
professionismo, lasciando un buon lavoro alle spalle e inseguendo il
mio sogno: aprire uno studio fotografico.
3-So
che è la classica domanda da un milione di dollari alla quale è
difficile rispondere e so altresì che può apparire banale, ma
forse, come tutte le cose che sembrano semplici, permette di capire
il senso delle nostre azioni: perché fotografi?
La domanda non è
così banale come sembra, come ho già detto in precedenza mi piace
narrare storie, e quando scovo una storia che mi attira, mi fermo un
momento e cerco di trovare il tempo di raccontarla. Sono storie che
in qualche modo mi affascinano, mi “chiedono” di essere
raccontate.
4-
Per conoscerti meglio ti faccio una domanda al volo, c’è una
fotografia alla quale sei particolarmente affezionato?
Non c'è una singola
fotografia a cui sono legato, ma ci sono lavori che sento
particolarmente miei, come quello relativo alla vita di un gruppo di
rom che ho seguito per alcuni anni, da quando ha preso fuoco il loro
campo, fino ai programmi di integrazione per l'inserimento in
strutture abitative fisse. Ho vissuto molte giornate intense, vivendo
con loro, mangiando nei loro campi, partecipando alle loro feste,
diventando uno di famiglia. Oppure il lavoro che dura ormai da molti
anni sul mondo dell'antimafia sociale, il primo grande lavoro che ho
iniziato ad affrontare nel 2005 e che sto continuando a seguire anno
dopo anno.
5-Se
non sbaglio il tuo mondo è principalmente quello del reportage.
Ecco, come si svolge il tuo lavoro? Come lavori sul campo?
Dietro alle mie
fotografie, ai miei lavori c'è la voglia di raccontare delle storie,
di dare voce a persone, a situazioni che difficilmente emergerebbero,
infatti le realtà che vado a documentare sono spesso molto
borderline: sono culture, modi di vivere non convenzionali, che non
sono riconosciuti come "normali".
Il nocciolo della
questione è sicuramente la curiosità che domina la mia vita fin da
bambino. Sono sempre stato curiosissimo, ho sempre approfondito tutti
gli argomenti che mi hanno colpito, sia a scuola, che nelle mie
passioni che nella mia quotidianità. Essere curiosi è fondamentale
per il fotografo (Leonardo Da Vinci diceva a tal proposito che "La
curiosità è madre della scienza"...), senza di essa non sarei
spinto a ricercare situazioni, soggetti da riprendere.
La genesi di un mio
lavoro è sempre la stessa: vengo a conoscenza di una situazione che
mi colpiscono (da giornali, da blog, dalla televisione, insomma, ho
le mie "fonti") e cerco di approfondire il più possibile,
andando a documentarmi su testi, interviste, video o altri reportage
fotografici sull'argomento.
Provo poi ad
elaborare un progetto fotografico ben preciso e mi metto in contatto
con i soggetti. Solo dopo aver condiviso con loro il mio pensiero, la
mia idea di reportage passo alla documentazione fotografica vera e
propria.
La parte dedicata
allo shooting è temporalmente molto ridotta rispetto alle fasi
preparatorie, a volte dietro a poche giornate di scatto ci sono molti
mesi di preparazione, di studio e di documentazione. Credo che
arrivare pronti, preparati al servizio che devo effettuare sia
fondamentale per la buona riuscita dello stesso.
Tengo un piccolo
quadernetto che mi porto sempre dietro dove mi appunto idee, frasi,
progetti. Credo che sia la chiave del mio modo di lavorare: a volte
mi faccio un appunto e poi resta lì dei mesi, degli anni fino a
quando non scatta qualcosa in me che lo fa riemergere e mi metto in
moto per la documentazione. Probabilmente se non l'avessi scritto,
l'avrei dimenticato e non avrei realizzato quel determinato lavoro.
6-Senti
anche tu quell’istinto che porta a cogliere con “l’occhio
meccanico” quell’attimo speciale e irripetibile che Josef
Koudelka chiama “potenziale della situazione”?
Sinceramente
credo che l'istinto non sia così importante nel fare il fotografo.
Penso che sia la pratica ad essere fondamentale. Accosto sempre la
fotografia ad un'attività sportiva, senza allenamento non si potrà
mai tirare fuori niente di buono. L'istinto in fotografia equivale ad
avere 10 metri di vantaggio in una maratona.
7-Una
singola immagine può rappresentare un’intera storia?
Non
credo sia possibile raccontare una storia con una singola fotografia.
Secondo me all'interno di un racconto fotografico è necessario avere
due tipologie di immagini: quelle principali, che sono il cardine del
reportage e quelle di “raccordo” per contestualizzare le immagini
più importanti.
8-A
cosa pensi prima di scattare?
Penso
a quello che voglio raccontare, alla storia che ho in mente. Cerco
sempre di arrivare al momento dello scatto senza pregiudizi di ogni
sorta, di avere la mente il più possibile libera per concentrarmi
solo sul mio lavoro.
9-Chiedi
sempre il permesso ad una persona sconosciuta prima di fotografarla?
Inizio
a dire che il mio metodo di lavoro non prevede spesso di fotografare
persone sconosciute, quindi il problema non sussiste. Anzi, faccio
sempre firmare a tutti i miei soggetti una liberatoria per poter
esporre le fotografie del lavoro, sia in mostre che su internet.
10-Il
fotografo ricopre un ruolo sociale?
Sicuramente
si. Non salverà il mondo, ma porta a conoscenza a persone
potenzialmente ignare di situazioni difficili. Per quanto mi
riguarda, nel mio piccolo, cerco di portare alla luce storie poco
raccontate, che però meritano di essere conosciute.
11-C’è
qualcosa che non fotograferesti mai? Se sì, cosa ti fa scegliere di
scattare o no? Fotograferesti anche immagini di sofferenza e morte?
Se si perché?
Non
essendo interessato al reportage di guerra non mi sono mai posto il
posto il problema. Credo che in una situazione di sofferenza o morte,
se fossi l'unico a poterla riprendere per mostrarne le atrocità,
allora fotograferei. In caso contrario lascerei ad altri il compito
di raccontare.
12-Ci
sono dei limiti etici e morali che il fotografo non può
oltrepassare?
I limiti esistono
eccome, e vanno dall'evitare lo “sciacallaggio” si situazioni
tragiche al non “sfruttare” un soggetto fotografato a sua
insaputa. Devo dire che nel mondo del professionismo c'è
un'attenzione molto marcata a queste tematiche, ma le mele marce sono
sempre presenti e purtroppo il cattivo comportamento di poche persone
rischia spesso di rovinare la reputazione all'intera categoria.