mercoledì 11 luglio 2012

Intervista per una tesi



Marta è una mia giovanissima allieva, ha frequentato quest'inverno il mio apericorso e subito si è distinta per talento e per bravura.
Qualche giorno fa mi contatta chiedendomi se potevo rispondere a qualche domanda per la sua tesi intitolata:  "Quando uno scatto ruba l'anima".
Ho subito accettato con entusiasmo, non solo perché l'argomento è molto interessante e ricco di spunti di riflessione, ma anche perché mi fa sempre piacere aiutare i miei allievi.

Ecco l'intervista! ;)

1 -Iniziamo dalle presentazioni, raccontami chi è Marco Donatilello
Marco è un fotografo, anzi no... è un narratore di storie. Questo perché non amo essere vincolato da classificazioni standardizzate come ritrattista, fotografo o reporter. La descrizione che mi vedo meglio cucita addosso è proprio quella di narratore di storie. Amo raccontare, con la mia macchina fotografica, con le mie immagini e con il mio sguardo, storie che mi colpiscono. Cerco di farlo in punta di piedi, senza influenzare la situazione che sto documentando, sempre nel rispetto dei soggetti, della loro storia e del loro vissuto.

2-Domanda di rito, come è nata la passione per la fotografia?
Ho iniziato a fotografare tardi rispetto alla media di molti miei colleghi. Mi sono avvicinato alla fotografia all'ultimo anno di università, quando sono venuto a contatto con una delle primissime macchine fotografiche digitali. Da quel momento è stato un amore senza fine! Le prime fotografie, i primi approcci su internet e sui forum di fotografia per imparare e conoscere altri appassionati; fino al 2007, anno in cui ho deciso di buttarmi nel mondo del professionismo, lasciando un buon lavoro alle spalle e inseguendo il mio sogno: aprire uno studio fotografico.

3-So che è la classica domanda da un milione di dollari alla quale è difficile rispondere e so altresì che può apparire banale, ma forse, come tutte le cose che sembrano semplici, permette di capire il senso delle nostre azioni: perché fotografi?
La domanda non è così banale come sembra, come ho già detto in precedenza mi piace narrare storie, e quando scovo una storia che mi attira, mi fermo un momento e cerco di trovare il tempo di raccontarla. Sono storie che in qualche modo mi affascinano, mi “chiedono” di essere raccontate.

4- Per conoscerti meglio ti faccio una domanda al volo, c’è una fotografia alla quale sei particolarmente affezionato?
Non c'è una singola fotografia a cui sono legato, ma ci sono lavori che sento particolarmente miei, come quello relativo alla vita di un gruppo di rom che ho seguito per alcuni anni, da quando ha preso fuoco il loro campo, fino ai programmi di integrazione per l'inserimento in strutture abitative fisse. Ho vissuto molte giornate intense, vivendo con loro, mangiando nei loro campi, partecipando alle loro feste, diventando uno di famiglia. Oppure il lavoro che dura ormai da molti anni sul mondo dell'antimafia sociale, il primo grande lavoro che ho iniziato ad affrontare nel 2005 e che sto continuando a seguire anno dopo anno.

5-Se non sbaglio il tuo mondo è principalmente quello del reportage. Ecco, come si svolge il tuo lavoro? Come lavori sul campo?
Dietro alle mie fotografie, ai miei lavori c'è la voglia di raccontare delle storie, di dare voce a persone, a situazioni che difficilmente emergerebbero, infatti le realtà che vado a documentare sono spesso molto borderline: sono culture, modi di vivere non convenzionali, che non sono riconosciuti come "normali".

Il nocciolo della questione è sicuramente la curiosità che domina la mia vita fin da bambino. Sono sempre stato curiosissimo, ho sempre approfondito tutti gli argomenti che mi hanno colpito, sia a scuola, che nelle mie passioni che nella mia quotidianità. Essere curiosi è fondamentale per il fotografo (Leonardo Da Vinci diceva a tal proposito che "La curiosità è madre della scienza"...), senza di essa non sarei spinto a ricercare situazioni, soggetti da riprendere.

La genesi di un mio lavoro è sempre la stessa: vengo a conoscenza di una situazione che mi colpiscono (da giornali, da blog, dalla televisione, insomma, ho le mie "fonti") e cerco di approfondire il più possibile, andando a documentarmi su testi, interviste, video o altri reportage fotografici sull'argomento.

Provo poi ad elaborare un progetto fotografico ben preciso e mi metto in contatto con i soggetti. Solo dopo aver condiviso con loro il mio pensiero, la mia idea di reportage passo alla documentazione fotografica vera e propria.

La parte dedicata allo shooting è temporalmente molto ridotta rispetto alle fasi preparatorie, a volte dietro a poche giornate di scatto ci sono molti mesi di preparazione, di studio e di documentazione. Credo che arrivare pronti, preparati al servizio che devo effettuare sia fondamentale per la buona riuscita dello stesso.

Tengo un piccolo quadernetto che mi porto sempre dietro dove mi appunto idee, frasi, progetti. Credo che sia la chiave del mio modo di lavorare: a volte mi faccio un appunto e poi resta lì dei mesi, degli anni fino a quando non scatta qualcosa in me che lo fa riemergere e mi metto in moto per la documentazione. Probabilmente se non l'avessi scritto, l'avrei dimenticato e non avrei realizzato quel determinato lavoro.

6-Senti anche tu quell’istinto che porta a cogliere con “l’occhio meccanico” quell’attimo speciale e irripetibile che Josef Koudelka chiama “potenziale della situazione”?
Sinceramente credo che l'istinto non sia così importante nel fare il fotografo. Penso che sia la pratica ad essere fondamentale. Accosto sempre la fotografia ad un'attività sportiva, senza allenamento non si potrà mai tirare fuori niente di buono. L'istinto in fotografia equivale ad avere 10 metri di vantaggio in una maratona.

7-Una singola immagine può rappresentare un’intera storia?
Non credo sia possibile raccontare una storia con una singola fotografia. Secondo me all'interno di un racconto fotografico è necessario avere due tipologie di immagini: quelle principali, che sono il cardine del reportage e quelle di “raccordo” per contestualizzare le immagini più importanti.

8-A cosa pensi prima di scattare?
Penso a quello che voglio raccontare, alla storia che ho in mente. Cerco sempre di arrivare al momento dello scatto senza pregiudizi di ogni sorta, di avere la mente il più possibile libera per concentrarmi solo sul mio lavoro.

9-Chiedi sempre il permesso ad una persona sconosciuta prima di fotografarla?
Inizio a dire che il mio metodo di lavoro non prevede spesso di fotografare persone sconosciute, quindi il problema non sussiste. Anzi, faccio sempre firmare a tutti i miei soggetti una liberatoria per poter esporre le fotografie del lavoro, sia in mostre che su internet.

10-Il fotografo ricopre un ruolo sociale? 
Sicuramente si. Non salverà il mondo, ma porta a conoscenza a persone potenzialmente ignare di situazioni difficili. Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo, cerco di portare alla luce storie poco raccontate, che però meritano di essere conosciute.

11-C’è qualcosa che non fotograferesti mai? Se sì, cosa ti fa scegliere di scattare o no? Fotograferesti anche immagini di sofferenza e morte? Se si perché?
Non essendo interessato al reportage di guerra non mi sono mai posto il posto il problema. Credo che in una situazione di sofferenza o morte, se fossi l'unico a poterla riprendere per mostrarne le atrocità, allora fotograferei. In caso contrario lascerei ad altri il compito di raccontare.

12-Ci sono dei limiti etici e morali che il fotografo non può oltrepassare?
I limiti esistono eccome, e vanno dall'evitare lo “sciacallaggio” si situazioni tragiche al non “sfruttare” un soggetto fotografato a sua insaputa. Devo dire che nel mondo del professionismo c'è un'attenzione molto marcata a queste tematiche, ma le mele marce sono sempre presenti e purtroppo il cattivo comportamento di poche persone rischia spesso di rovinare la reputazione all'intera categoria.