Ieri sera si è tenuta la serata inaugurale della Biennale Democrazia, appuntamento che amo sempre documentare. Ha aperto la rassegna il Presidente della Camere dei Deputati Laura Boldrini.
Al termine della sua lezione inaugurle c'è stato un bellissimo omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della sua scomparsa, intitolato "L'illogica utopia" a cui sono intervenuti: Luca Barbarossa, Bruno Maria Ferraro, Enzo Iacchetti, Andrea Mirò, Michele Serra, Paola Turci e con la partecipazione straordinaria di Sandro Luporini.
Al termine della sua lezione inaugurle c'è stato un bellissimo omaggio a Giorgio Gaber nel decennale della sua scomparsa, intitolato "L'illogica utopia" a cui sono intervenuti: Luca Barbarossa, Bruno Maria Ferraro, Enzo Iacchetti, Andrea Mirò, Michele Serra, Paola Turci e con la partecipazione straordinaria di Sandro Luporini.
Vorrei riportare l'intero discorso della Presidente Boldrini, in quanto è stata una vera e propria lezione sulla democrazia.
Presidente Zagrebelsky, gentili ospiti, care amiche ed amici,
se c’è una parola a cui la storia dell’umanità deve molto, una parola a cui devo molto anch’io, il mio impegno professionale e oggi questa carica che ho l’onore di ricoprire, bene, quella parola è proprio utopia.
Perché l’utopia racconta il dubbio. E senza dubbi, la politica sarebbe solo un fotogramma immobile, un esercizio di vanità, una condizione di solitudine.
L’utopia è ricerca. Cioè misurarsi con i propri limiti, averne rispetto e pudore, mai paura. Accettare la sfida del cambiamento che è la promessa più alta della democrazia.
L’utopia è il viaggio: l’irrequietezza del mettersi in cammino, lasciare porti sicuri per spingere lo sguardo oltre la linea dell’orizzonte. Perché ciò che conta, come scriveva il poeta greco Kavafis, è partire: “…quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze…”
Senza questa condizione faticosa e stimolante, senza l’utopia di un prossimo viaggio, che cosa sarebbe stato della nostra storia? Come avremmo potuto immaginare che un giorno il presidente della più importante nazione del mondo sarebbe stato il figlio di un africano, senza il dovere di quell’utopia?
E se la mia storia mi porta oggi a presiedere la Camera dei Deputati, forse è anche il frutto delle molte silenziose e tenaci utopie a cui ho cercato di dar voce per più di vent’anni, dal diritto degli ultimi e dei perseguitati di non essere per sempre ultimi e vittime, alla fame di speranza e di vita di chi si è messo in viaggio senza sapere se mai sarebbe arrivato. Penso al viaggio di centinaia di migliaia di migranti e rifugiati a cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e altre organizzazioni provano ogni giorno a restituire dignità e futuro.
Certo, la storia ci insegna che spesso in politica l’utopia appare come un’eresia. Eppure, quale utopia è oggi più necessaria se non immaginare un’Italia in cui diritti, eguaglianze, dignità civili siano finalmente parole certe, regole riconosciute, principi rispettati?
Viviamo in un tempo che non è affatto equo. Nel mondo l’1% degli uomini possiede il 40% di tutte le risorse del pianeta. Le tre persone più ricche del mondo hanno lo stesso peso economico dei 600 milioni di essere umani più poveri. Senza andar lontano, il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è uguale alle risorse degli otto milioni di italiani più poveri.
Se la politica non assume su di sé la sfida di curare queste ferite di civiltà, se non saremo capaci di affrontare l’utopia urgente e possibile di un paese e di un mondo più equi, di quale buona politica staremmo parlando?
La crisi in corso ha prodotto conseguenze drammatiche sulla vita delle persone, ma nella sua durezza ci costringe a ridefinire i nomi e i giudizi che attribuiamo ai fatti della politica e della società. Ci spinge ad accorciare la distanza che separa l’utopia dalla possibilità.
Faccio tre esempi soltanto, tra i molti che ci offre il contesto nazionale ed internazionale.
Il tema delle spese militari, fino a qualche tempo fa oggetto – nel panorama italiano – di critiche che rimanevano circoscritte agli ambienti del pacifismo. Oggi la richiesta di riduzione di quelle spese si presenta
ben più diffusa, al punto che nei mesi scorsi diverse forze che sostenevano il governo si sono attribuite il merito dei tagli più cospicui.
Perché questo cambiamento? Perché la crisi economica ha spinto a guardare in modo diverso gli investimenti militari. Un dibattito, fino a ieri considerato “ideologico”, ha assunto oggi la concretezza di un bivio: volete voi qualche cacciabombardiere in più, oppure quel denaro può essere investito per sostenere la spesa sociale? L’utopia di un mondo
meno armato quindi si è finalmente spogliata di ogni astrattezza per diventare stringente discussione su una possibile destinazione alternativa delle risorse pubbliche.
Secondo esempio. Il dibattito sul sistema bancario. La critica alla finanza speculativa è stata per lungo tempo patrimonio di gruppi considerati radicalmente alternativi al sistema economico capitalistico. Anche in questo caso la crisi ha ribaltato il nostro punto di vista: oggi è naturale chiedere che le banche tornino ad una funzione di sostegno alle imprese e alle famiglie, ed è altrettanto naturale condannare le speculazioni finanziarie che in pochi secondi possono spingere un Paese e i suoi cittadini sull’orlo del baratro.
Terzo esempio. Le questioni dell’ambiente. Veniva considerato fuori dalla storia chi si permetteva di criticare il modello di sviluppo dominante, chiedendo che venisse arginato il consumo illimitato di territorio, l’edificazione senza regole, la monetizzazione delle bellezze naturali a prezzo del loro sfregio. In questo caso, più che la crisi economica è stata l’evidente devastazione dell’Italia a farci aprire gli occhi. La protezione del territorio non è il sogno bucolico del ritorno in Arcadia, ma l’unico
modello di sviluppo realisticamente praticabile in un Paese dalle straordinarie ricchezze ambientali qual è il nostro. La presunta “utopia” di uno sviluppo ecosostenibile si è rivelata la strada lungo la quale avviare la
nostra ripresa.
E non era forse considerata un’utopia, fino a pochi mesi fa, affrontare il nodo dei costi della politica come sto provando a fare adesso da presidente della Camera? Anche per questo il mio primo atto è stato quello di ridurre in modo significativo la retribuzione e le prerogative che mi erano assegnate. Il secondo atto è stato quello di chiedere a tutti i deputati titolari di cariche istituzionali di fare altrettanto: e la loro risposta è stata positiva. E continueremo su questa strada. Non lo sto facendo, credetemi, per cercare un facile consenso e neanche soltanto per esigenze di risparmio. Lo faccio perché in un tempo così difficile per la vita delle famiglie italiane, quando in tanti sono costretti a sacrifici e risparmi al limite delle loro possibilità, soprattutto le istituzioni, soprattutto chi fa politica deve dare un segnale concreto di rigore e di limpidezza.
Se avessi avuto un dubbio sulla necessità di queste scelte di rigore e di sobrietà, la tragedia di Civitanova Marche lo avrebbe sicuramente spazzato via.
Romeo Dionisi, Anna Maria Sopranzi, suo fratello Giuseppe, tre persone per bene, oneste, che si sono trovate da sole a sopportare il peso materiale e morale della loro povertà.
Morire per miseria e per dignità ferita è un’ingiustizia intollerabile!
Quando ci si toglie la vita perché si è diventati improvvisamente e insopportabilmen-te poveri, quando s’è smarrito anche il diritto alla speranza - e in Italia è già successo troppe volte - significa che la società non ha più reti di protezione sociale adeguate. E significa che si è troppo diffusa l'idea della povertà come qualcosa di cui vergognarsi, l'idea cinica secondo la quale se sei povero è colpa tua che non sei abbastanza bravo, scaltro, furbo. Che non sai farti valere come invece saprebbero fare quelli che si vantano delle loro ricchezze, raggiunte non importa come. E' vero o no che tanti, troppi in Italia la pensano così?
Eppure la qualità di una persona non si evince dal reddito.
Eppure, scolpito nello spirito profondo della nostra Repubblica, c'è quell’articolo 3 della Costituzione che ho scelto come bussola per il mio operare.
Lasciate che lo rilegga con voi: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Questo articolo non ci ricorda soltanto che tutti siamo uguali: ci dice anche che la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona di realizzarsi e di partecipare alla vita del Paese. E la Repubblica non è una entità astratta: siamo noi, siete voi, sono le nostre istituzioni, le forze politiche e sociali, le scuole, le Università, i luoghi del lavoro e della produzione.
Purtroppo le diseguaglianze sono aumentate negli ultimi anni, non diminuite. E la crisi in corso ha moltiplicato e ingigantito gli ostacoli da rimuovere. Penso all’articolo 3 quando leggo i dati resi noti poche settimane fa, secondo i quali 57mila studenti hanno abbandonato l’Università italiana negli ultimi dieci anni. E’ un numero che più drammaticamente di ogni altro ìndica come suonino vuote per i nostri giovani le promesse di uguaglianza che noi, loro genitori, avevamo potuto considerare credibili.
Presidente Zagrebelsky, tutto avrei potuto immaginare, appena un mese fa, tranne che sarei stata chiamata all’alto compito che oggi mi onora.
Dopo i primi momenti di sorpresa e, perché negarlo, di spavento, ho cercato di concentrare tutte le mie energie su una missione che considero prioritaria su ogni altra: dare il mio contributo per ricucire il rapporto profondamente lacerato tra i cittadini e le istituzioni.
Ho creduto di dover prendere sul serio la critica che sale dal profondo del Paese verso i partiti e verso la politica. E non mi sentirete mai liquidare questa critica come “antipolitica”. Non perché non veda il pericolo di populismi autoritari e illiberali: ne è piena l’Europa, purtroppo. Ma questa domanda di trasparenza e di onestà non è nemica della buona politica, anzi, ne rappresenta l’essenza. Così come non è una svagata protesta il disgusto diffuso verso la corruzione, lo sperpero di denaro pubblico, l’esibizione ostentata e volgare del potere.
Bene: quella richiesta di trasparenza è anche la mia. E quell’intolleranza verso il malaffare è anche la mia. E’ per questo che, nelle prime settimane di Presidenza, ho voluto mandare un segnale chiaro all’opinione pubblica e alle forze politiche, presentandomi con un biglietto da visita che contribuisca a far sentire meno lontane le istituzioni e a far percepire le aule del Parlamento come “la casa della buona politica”.
Ma è anche il tempo di affermare, con altrettanta nettezza, che l’idea della “politica gratis” è un’utopia negativa, un modello che dobbiamo smettere di inseguire anche se esso conta ancora su notevoli sostegni mediatici. La politica non può essere raffigurata solo o principalmente come la competizione tra chi taglia di più i costi. Ed è una banalità quella che fa il conto degli euro che si “sprecherebbero” in ogni seduta parlamentare, come se il confronto tra le posizioni, l’approfondimento anche faticoso dei problemi, fosse una permanente dissipazione di tempo e di denaro.
Così come non mi convince un’altra semplificazione, così di moda in questi tempi, che vorrebbe la politica esclusivamente finanziata dai privati. Intendiamoci, sento forte la necessità di regole più rigorose delle attuali, ma continuo a pensare che non debba essere indispensabile avere generosi finanziatori per poter concorrere alla vita democratica. Perché la buona politica sta nell’esercizio responsabile delle proprie funzioni: liberi, anzitutto, da ogni condizionamento.
Mi sembra invece un’utopia necessaria, alla quale guardare con grande attenzione, quella di una partecipazione sempre più estesa dei cittadini, grazie anche agli strumenti della Rete. La società italiana mantiene, nonostante la crisi che colpisce anche i soggetti della rappresentanza sociale e politica, un alto livello di partecipazione. E stasera tributeremo il giusto omaggio all’artista che più di ogni altro ha saputo ricordarci quale sia il nesso inscindibile tra partecipazione e libertà.
E’ la partecipazione che ci rende cittadini consapevoli, come ci vuole la nostra Costituzione, mentre una forte spinta economica e comunicativa, che investe tutte le società, vorrebbe fare di noi (e soprattutto dei nostri ragazzi) consumatori in servizio permanente effettivo, la cui cittadinanza si esplica al massimo nella deposizione di una scheda nell’urna.
La rete offre nuove e grandi possibilità di informazione e di coinvolgimento, ma non mi attrae una presunta democrazia diretta che funzioni secondo lo schema “uno schermo, un voto”. Molto può essere
fatto per potenziare gli strumenti della democrazia parlamentare, accorciando le distanze che separano rappresentanti e rappresentati.
Spero che possa essere presto portata alla discussione della Camera la proposta che rafforza l’iniziativa legislativa popolare. Fin qui lo strumento non ha prodotto risultati apprezzabili: in passato i testi sottoscritti da almeno 50mila cittadini sono rimasti troppo spesso a prender polvere nei cassetti parlamentari, non avendo a disposizione alcuna corsia preferenziale. Dobbiamo impegnarci a modificare i regolamenti parlamentari, in modo da rendere rapido e obbligatorio l’esame del testo
sottoscritto da un numero adeguato di cittadini e per consentire ai promotori di quel disegno di legge di poter seguire direttamente l’iter della proposta.
Allo stesso scopo mira anche la “campagna d’ascolto” che intendo promuovere alla Camera non appena saranno stati superati i prossimi, rilevanti passaggi istituzionali. Sarà l’incontro con i soggetti sociali, economici, culturali che incarnano le questioni più acutamente avvertite dalla nostra comunità civile. L’apertura della “casa della buona politica” a chi lavora ogni giorno alla soluzione dei problemi. Mi piacerebbe che questa apertura potesse accompagnare l’attività legislativa (una volta che – spero prestissimo – essa potrà svilupparsi a velocità piena), in un intreccio fruttuoso con gli strumenti ordinari delle audizioni nelle Commissioni parlamentari.
E dobbiamo impegnarci a ritrovare un rapporto fecondo, intenso, leale con l’Europa. L’Europa immaginata nel manifesto di Ventotene, quella straordinaria, preziosa utopia fabbricata nella durezza del confino fascista. Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi intuirono che l’unico rimedio alle dittature, alle guerre, a quel tempo infelice di uomini contro sarebbe stato un grande progetto federalista europeo. E’ la sfida che dobbiamo raccogliere, dopo anni di reticenza e di disimpegno: restituire all’Italia l’orgoglio di battersi per gli Stati Uniti d’Europa. Un’Europa dei diritti, delle opportunità, delle pari dignità. Un’Europa nella quale i nostri figli si sentano a pieno titolo cittadini, siano nati a Palermo o a Berlino.
Un’Europa che sappia fare della solidarietà e della coesione sociale non solo voci di spesa ma primati della propria azione politica. Un’Europa che sappia difendere e rinnovare il suo sistema di welfare, giustamente definito come “la più straordinaria invenzione di ingegneria sociale degli ultimi 150 anni”.
Un’Europa che metta al centro della propria architettura istituzionale e civile i beni comuni, che sono valore fondativo di ogni democrazia: l’aria, l’acqua, l’ambiente, la cultura, la conoscenza… Eppure in Italia i beni comuni sono stati spesso svenduti, trascurati, piegati alle logiche del profitto. Siamo tra i paesi d’Europa che meno investono nella cultura e nell’istruzione. Ma siamo anche un paese che, attraverso un referendum, ha saputo restituire all’acqua pubblica la sua inviolabilità di bene collettivo, risorsa di tutti, dignità di ciascuno.
Quel referendum, e il milione e quattrocentomila firme che lo hanno accompagnato, sono stati un gesto di sana indignazione collettiva. Ha ragione Salvatore Settis quando scrive che per tenere viva la speranza e darle forma dobbiamo coltivare la nostra indignazione, non spegnerla come se riguardasse solo il passato. Anche in questo sento forte il dovere della politica e delle sue istituzioni: dobbiamo affrancare i cittadini dalla rassegnazione e dall’abitudine, far sentire loro che partecipare, proporre, scegliere, decidere, vigilare rappresentano il pieno esercizio del diritto di cittadinanza. Dal quale nessuno di noi può prescindere.
In conclusione, lasciatemelo dire: anche la democrazia, nella sua concezione più alta e compiuta, rischia di apparire un’utopia. Ma come potremmo sottrarci a questa sfida sapendo che il diario quotidiano di ogni democrazia è scritto sulla vita materiale, faticosa di milioni di donne e di uomini? Prendersi cura di quelle vite e di quelle fatiche non è un’utopia: è il segno della buona politica. A Montecitorio come nel più sperduto villaggio d’Africa.
Pensate a Kogelo, appena un punto sulla carta geografica del Kenia, un gruppo di case appoggiato sulla linea dell’equatore. Da Kogelo partì negli anni Cinquanta un uomo. Suo figlio oggi è il presidente degli Stati Uniti d’America.
Ecco, ragazzi, cos’è la nostra saggia utopia!
Vi chiedo di mettere da parte ogni cinismo e di osare! Volate alto, non abbiate paura! Non abbiate timore di esporre il vostro sguardo alle cose di questo mondo. Riprendetevi il sogno, i valori della solidarietà,
dell’eguaglianza, della dignità umana. Perché questi principi non sono solo parole virtuose: è in essi, dentro di essi, il segno della vita che verrà.
Di una politica responsabile. Di una felice democrazia.